Il Museo Regionale dell’Emigrazione ha effettuato un’opera di documentazione e analisi dell’emergenza sanitaria da COVID-19. Dopo il ciclo di incontri sul tema organizzato con l’Associazione “Pensieri in Piazza” e dopo la mostra “Confini. Ridisegniamo gli spazi ai tempi del Coronavirus”, la struttura ha inteso trattare l’argomento anche con un taglio storico. Un focus sul territorio, dunque, ma anche un’attenzione agli argomenti vicini alla mission della struttura.
Il Coronavirus, come tutte le altre malattie, ha mostrato di non conoscere barriere: si è spostato attraversando oceani e ha azzerato qualsiasi tipo di appartenenza rendendoci tutti sue vittime potenziali. Allo stesso tempo, tuttavia, il trattato di Schengen sembrava essere un lontano ricordo, i confini regionali e comunali sono apparsi per mesi come delle vere e proprie barriere, tra queste ve n’erano anche di nuove, come quelle della porta di casa o del nostro balcone.
I confini sono stati tracciati e rimarcati, reinventati anche, dal COVID-19. Questi ultimi, soprattutto a livello nazionale, se sono tuttora solcati dai migranti contemporanei, erano attraversati anche durante il periodo della Grande Emigrazione italiana. Se sappiamo che il Coronavirus ha viaggiato di continente in continente, che ne era delle malattie di un tempo? Che peso avevano per l’esito del percorso migratorio? Vi erano misure di tutela dei migranti nei paesi di immigrazione o al ritorno in patria?
Ne abbiamo parlato con Augusta Molinari, Professoressa ordinaria di Storia presso l’Università di Genova, che è la più grande esperta di storia della sanità in Italia. L’incontro, fissato sabato 5 settembre, è stato organizzato negli spazi interni del Museo a causa del mal tempo. Il DPCM in vigore in quel periodo autorizzava gli incontri culturali anche negli spazi chiusi, purché venissero rispettate le norme volte ad evitare l’aumento dei contagi. La prenotazione era dunque caldamente consigliata.
Augusta Molinari ha posto l’accento su come, sebbene la malattia fosse un fattore determinante in relazione alla riuscita dei progetti migratori, solo raramente abbia trovato spazio nella pur vasta e qualificata storiografia sulle migrazioni storiche italiane. Questo perché la malattia dei migranti ha lasciato poche tracce. Il migrante ha nei paesi di destinazione la funzione di un “corpo al lavoro”, quando si ammala non ha assistenza perché diventa un corpo inutile.
Uno spiraglio per cogliere le problematiche del rapporto migrazioni/malattia è fornito dalla pubblicista medica del primo Novecento e dalla documentazione sanitaria dei viaggi transoceanici dell’epoca, tra cui i giornali sanitari e di bordo. Da queste di fonti emergono informazioni utili per collocare la malattia nel complesso delle problematiche migratorie: il carattere di patologia sociale di massa che nei paesi di immigrazione (in particolare Stati Uniti e Brasile) assumono alcune malattie (tra cui la tubercolosi e le alienazioni mentali); le dinamiche di espulsione attuate nei confronti dei migranti (come, ad esempio, respingimenti allo sbarco e rimpatri coatti); la mancanza da parte dello stato italiano di misure di tutela dei migranti sia nei paesi di immigrazione sia al ritorno in patria.
Si è trattato di un approfondimento dunque importante, lontano dalla visione spesso edulcorata dell’emigrazione italiana all’estero e dalla retorica della costruzione di un futuro migliore. Eppure uno spunto di riflessione di grande attualità, in grado di gettare ponti tra passato e presente, fornire lenti nuove con cui osservare il momento attuale e le sue conseguenze.